Ogni volta che una persona muore di freddo, la nostra società ha perso.

13 Gennaio 2021 – All’alba di sabato 9 Gennaio un uomo è stato trovato senza vita vicino ad Ostia, per strada, davanti alle scale del Municipio, davanti alle scale di quelle istituzioni che avrebbero dovuto tutelarlo. È morto di freddo, anzi di gelo, durante la notte.

Ogni volta che una persona muore di freddo, la nostra società ha perso. Ha perso lo Stato, ha perso la nostra Costituzione, hanno perso il Primo Ministro e tutto il Governo, hanno perso il Parlamento ed il Senato, ha perso il Presidente della Repubblica. Ha perso la Chiesa, ha perso il Papa, hanno perso i Rabbini capi, gli Imam, i preti di tutte le città d’Italia. Hanno perso gli startupper, gli agricoltori, i piccoli artigiani, gli industriali, gli esercenti, gli operai, i manager, i consulenti, le partite iva, i commercialisti, gli avvocati, i notai, i giornalisti, i medici e gli infermieri. Ha perso la Protezione Civile, ha perso la Croce Rossa, hanno perso addirittura la Comunità di Sant’Egidio e tutte le splendide associazioni di volontari che ogni giorno ed ogni notte si mobilitano per offrire assistenza a chi vive per strada; ho perso io che scrivo, hai perso tu che leggi queste righe: ogni volta che una persona muore di freddo, abbiamo perso tutti.

Perché morire di freddo, da soli per strada, è semplicemente disumano. Così come è disumano accettare che qualcuno possa morire di freddo. Solo a Roma sono già 9 le persone morte di notte per strada dall’inizio dell’inverno. Nessuno di noi può capire fino in fondo cosa voglia dire vivere perennemente al freddo: tutti noi affrontiamo il freddo solo per pochi momenti al giorno, durante una passeggiata, o nel breve tragitto tra la casa e l’auto, prima di tornare nuovamente al caldo. Chi vive per strada non ha mai a disposizione questo ristoro: per chi non ha una casa il freddo è una condizione permanente, ineludibile, che annichilisce, toglie ogni energia vitale, rende blu il volto e gli arti. In queste prime settimane di inverno ho visto persone invecchiare di colpo di venti anni.

E anche se i comuni ed i municipi hanno aperto (pochi, per la verità) centri di emergenza freddo, anche se le Ferrovie hanno lasciato le stazioni aperte, anche se alcune chiese (ma dovrebbero farlo tutte) hanno lasciato aperte le porte di notte per offrire un rifugio e salvare chi rischia ogni notte la vita, purtroppo quanto stiamo facendo non è assolutamente sufficiente. A Roma, a fronte di 8000 persone che vivono per strada, ci sono solo 2500 posti a disposizione per l’emergenza freddo. Tutti gli altri sono costretti a vivere in piccole baracche di fortuna, vecchie roulotte, o spesso direttamente per strada.

Ogni volta che in casa accendiamo una stufetta, un caminetto, alziamo il riscaldamento, ci mettiamo un maglione in più o appoggiamo un piumone in più sulle nostre coperte: in quello stesso momento dobbiamo a tutti i costi ricordarci che, probabilmente a poche centinaia di metri da noi, c’è una persona che dovrà resistere, per tutta la notte, coperta da qualche cartone e scaldata solo da quello che gli è stato passato dalle associazioni di volontariato che, coraggiosamente, non hanno voltato le spalle dall’altra parte; ma le azioni di queste associazioni non sono sufficienti per salvare tutte le persone che rischiano ogni notte di non risvegliarsi mai più. Persone che, agli occhi della nostra società, sono quasi invisibili.

Ci sono alcune incredibili eccezioni: a Roma, la città da cui scrivo, la Comunità di Sant’Egidio ha trasformato la Chiesa di San Calisto a Trastevere in un rifugio anti-freddo creando tante stanzette separate nella navata centrale della chiesa per ospitare i senzatetto in questo gelido inverno funestato, come se non bastasse, da una pandemia globale; il Papa, tra le tante iniziative a favore dei poveri, ha assegnato un’intera palazzina di fronte al sagrato di San Pietro all’accoglienza dei poveri; alla stazione centrale di Roma Termini è stata inaugurata da pochi giorni una struttura di l’accoglienza; infine, molti municipi e molti comuni, in tutta Italia, hanno aperto dei centri di emergenza freddo per accogliere i senza tetto di notte, almeno d’inverno.

Ma queste iniziative, per quanto lodevoli e assolutamente necessarie, non riescono a far fronte alla necessità vitale – nel senso letterale della parola – di accogliere e proteggere tutte le persone che ne avrebbero bisogno. E spesso sono proprio i più fragili tra i fragili, ultimi tra gli ultimi, a non riuscire a trovare questo aiuto.

Provo a raccontare brevemente alcune storie di persone senza fissa dimora: le storie di Shiva, di Yvona, di Vincent, di Arie.

Shiva è un signore indiano di 75 anni che vive in Italia da molti anni e viene seguito quotidianamente da varie associazioni di volontari. Verso Ottobre Shiva ha avuto un malore mentre dormiva per strada, e grazie all’intervento di alcuni volontari è stato ricoverato d’urgenza in un ospedale, per quello che si è rivelato poi essere un problema di salute serio. Dopo qualche giorno, durante una delle tante cene itineranti con cui si portano pasti ogni sera ai senzatetto, abbiamo nuovamente incontrato Shiva, che era stato riportato sulla strada, a poca distanza dal giaciglio di sempre. Per alcuni tipi di operazione è previsto che il paziente possa essere riportato a casa per il periodo di degenza post-operatoria. In questo caso, non avendo Shiva una casa, qualche operatore – non so se del comune o se dello stesso ospedale in cui era stato operato – ha pensato bene di riportarlo sulla strada. Quando lo abbiamo incontrato aveva ancora il catetere attaccato. Solo una minaccia di denuncia da parte di un volontario che è anche avvocato ha fatto sì che Shiva venisse trasferito nuovamente in un centro protetto, dove tuttora – per fortuna – risiede.

Arie era un signore Olandese, senza fissa dimora, che viveva a Roma da molti anni, sotto il ponte del treno di via del Porto Fluviale. Arie è stato ritrovato morto una mattina di Aprile di quest’anno, nelle primissime settimane di lockdown, quando tutto era chiuso, tutti erano in casa, e quasi tutte le strutture di supporto ai senzatetto si stavano riorganizzando per far fronte alla nuova emergenza. In quei giorni a Roma anche la Caritas era ferma, e solo S.Egidio era riuscita – con grossa fatica – a mantenere attive le cene itineranti e le mense cittadine. Non si sa ancora cosa abbia ucciso Arie. Il suo corpo è stato trovato circondato e ricoperto da gabbiani, a poche centinaia di metri dalla casa dei miei genitori, della casa in cui sono cresciuto. Io non c’ero quando hanno ritrovato Arie, ci ha raccontato tutto poche ore dopo un suo compagno di strada che viveva lì vicino. Nonostante questo, la visione dei gabbiani sul corpo di Arie mi perseguita ancora, ogni notte. L’unica consolazione è stata quella di sapere dai suoi compagni di strada che la sera prima un ragazzo con la cinquecento era andato da lui, gli aveva lasciato un pasto, aveva cambiato le lenzuola della brandina su cui dormiva, e gli aveva rimboccato le coperte prima di salutarlo. Quel ragazzo è tornato il giorno dopo, quando ha scoperto che Arie non c’era più è scoppiato in un pianto inconsolabile. Arie non è morto solo, aveva ricevuto amore, affetto e calore umano poche ore prima di andarsene. Ma questa è una piccola, magra consolazione, davanti al modo tragico in cui è morto.

Yvona è una signora polacca che vive in un’automobile, assieme ad Alberto, un anziano signore di Roma che, al contrario di Yvona, non ne vuole sentire di andare in emergenza freddo. Vuole restare a vivere nella macchina sotto quella che era stata la sua casa e che ora non lo è più. Per Yvona ed Alberto è stato trovato un posto all’emergenza freddo, ma Alberto non ha voluto spostarsi, ed Yvona ha deciso di rimanere con lui nell’auto, per non lasciarlo solo.

Infine la storia di Vincent, un pittore americano di 82 anni, che ad inizio inverno è stato accolto in quella che doveva, teoricamente, essere una struttura protetta ed attrezzata per assisterlo e tutelarlo. Purtroppo da quella struttura Vincent è stato cacciato, perché dopo tanti anni passati in uno stato di estremo degrado non era più abituato a prendersi cura del proprio igiene personale e nella struttura mancava personale dedicato (troppo spesso nelle strutture messe a bando mancano le figure che dovrebbero garantire accoglienza proprio ai più fragili). E così, nei giorni delle festività natalizie, abbiamo reincontrato Vincent per strada, su una sediolina striminzita da cui non si alzava quasi neanche più per fare i bisogni, nascosto da una montagna di coperte. Qualcuno in quei giorni ha anche avuto il coraggio di rubare a Vincent tutti i suoi quadri, le memorie di una vita. Nonostante tutto, quella di Vincent è una storia a lieto fine, perché Vincent probabilmente, dopo essere stato cacciato dal centro di accoglienza, non sarebbe riuscito a sopravvivere all’inverno. La notte di Natale è stato trovato un posto per Vincent in una nuova struttura. Purtroppo la struttura è aperta solo 15 ore al giorno, ma grazie alla gentilezza degli operatori del centro, ad un prete che ha messo a disposizione una stanza della parrocchia per ospitare Vincent durante il giorno, e ad un grande lavoro di squadra, oggi Vincent è al sicuro, è tornato a dipingere in una stanzetta adibita ad atelier, è felice: la testardaggine di una decina di persone – volontari, operatori e semplici cittadini – gli ha salvato la vita.

Ci sono migliaia di storie come queste, in Italia e nel mondo. Alcune sono a lieto fine, altre no, tutte ci invitano a riflettere, e ci chiedono di agire.

In Italia le persone senza tetto sono circa 50.000, meno dello 0,1% della popolazione; a Roma 8.000, ovvero lo 0,3% della cittadinanza. Eppure, se ognuno di noi si dedicasse per un solo giorno, ogni cento giorni, interamente ad una persona che vive per strada, allora non ci sarebbero più persone abbandonate a sé stesse. Se esistessero mille, al massimo duemila palazzine in tutta Italia, completamente dedicate all’accoglienza delle persone che vivono per strada, con una rotazione di volontari per assisterli nelle questioni più semplici e una piccola parte di personale specializzato per assisterli negli aspetti più delicati (secondo modelli già provati e funzionanti), potremmo togliere tutti dalla strada.

Lo stato potrebbe finanziare gli hotel chiusi per la pandemia che decidessero di aprire le loro porte all’accoglienza delle persone senza fissa dimora. La gestione quotidiana di questi hotel trasformati in “centri emergenza freddo” potrebbe essere portata avanti dalle tante associazioni di volontariato che già oggi, pur non potendo risolvere il problema dell’alloggio, assistono, ascoltano, e portano da mangiare ogni giorno ai senzatetto di tutta Italia. Un modello almeno in parte simile viene applicato oggi alla Casetta della Misericordia al Gemelli, dove l’ospedale ha messo a disposizione solo la struttura, e l’intero sistema di ospitalità è gestito da volontari della Comunità di Sant’Egidio. In aggiunta, le oltre 25.000 parrocchie in Italia potrebbero organizzarsi per accogliere, permanentemente o almeno durante l’inverno, le persone più fragili. Per quanto possa sembrare incredibile, basterebbe, in media, accogliere due persone a parrocchia per togliere virtualmente dalla strada tutti i senzatetto d’Italia. Ma non esiste un solo modo per affrontare il problema, e probabilmente la soluzione giusta può essere data da un’integrazione delle varie soluzioni possibili e da un’espansione a larga scala delle varie soluzioni già messe in atto.

Far sì che nessuno in Italia viva più per strada, che nessuno muoia più di freddo, è un sogno possibile. L’Italia può farcela, e, in un nuovo Rinascimento – umanistico ed umanitario – può diventare di nuovo nella storia un esempio per il mondo intero. E da questo traguardo, dalla realizzazione di un sogno così grande, così impensabile, ma in realtà possibile, può nascere un nuovo modello di società e di cittadinanza, può trasformarsi un’idea di mondo in cui vale la pena vivere e per cui vale la pena lottare. La consapevolezza di essere riusciti a risolvere con successo una sfida così grande ispirerebbe tutta la società civile, tutti i giovani per molte generazioni a venire: se questo è stato possibile, allora tutto è possibile. E l’Italia potrebbe fare da modello.

Realizzare questo sogno non è solo possibile, è doveroso. Ma per riuscirci, dobbiamo crederci, e lavorarci, tutti assieme, nessuno escluso. A partire da me che scrivo, e da te che leggi.

Adriano Bonforti – Maipiuperstrada.org

[NOTA: Questo articolo è stato pubblicato originariamente su altri canali social in data 13 Gennaio 2021, e poi ripubblicato sul nostro Blog in data 4 Ottobre 2021]

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