Il muro di gomma dell’INPS che emargina e condanna i più fragili

Nel dicembre 2020, in pieno lockdown, ho conosciuto C., un signore italiano di mezza età che prima della pandemia faceva saltuariamente il cuoco, e che ad inizio pandemia si è ritrovato senza lavoro ed ha perso tutto: prima la casa in affitto, poi la macchina in cui dormiva, che gli è stata sequestrata quando non ha più potuto permettersi di pagare l’assicurazione, trovandosi a vivere al freddo per strada.

La situazione di C. si è rivelata subito molto complessa da affontare; ci sarebbe molto da scrivere sulle molte mancanze ed inefficienze delle istituzioni, dei servizi sociali, degli stessi ospedali, che abbiamo riscontrato seguendo C. in modo ravvicinato.

In questa sede mi limiterò però a parlare di quanto successo con l’INPS e di come le gravissime mancanze dell’INPS possano diventare, come nel caso di C.,  un motore attivo per creare emarginazione e grave disagio sociale, fino a mettere a rischio la vita proprio dei più fragili, ovvero di quelle persone che andrebbero tutelate prima e più  di chiunque altro.

Nel Marzo 2020, riuscendo miracolosamente a superare la sfiducia generalizzata di C. verso le istituzioni, lo abbiamo accompagnato in ospedale, dove gli è stato diagnosticato un diabete mellito non trattato, con valori glicemici oltre 700 mg/dl (normalmente non si dovrebbero superare i 100 mg/dl). Questi valori indicano rischio vita immediato. Nonostante la gravità della situazione C. è stato dimesso immediatamente dall’ospedale, ed i servizi sociali, pur sollecitati più volte, non hanno preso in carico la situazione. Ci siamo dunque attivati assieme ad altre associazioni per ottenere il cambio di residenza (da una residenza fittizia della città in cui C. viveva precedentemente ad una residenza fittizia di Roma per persone senza fissa dimora), l’iscrizione alla ASL, l’assegnazione di un medico di base, l’esenzione dei medicinali. 

Quando, al termine di una trafile lentissima e molto burocratica, tutto sembrava iniziare a volgere per il meglio, è arrivata la doccia fredda: a C. era stato sospeso anzitempo, per non meglio precisati motivi, il reddito di cittadinanza, che per C. costituiva l’unica forma di tutela e di sostentamento. Infatti pur non essendo sufficiente a trovare una stanza in affitto (anche per le garanzie richieste), il reddito di cittadinanza permetteva a C. di provvedere agli acquisti dei beni di prima necessità, pasti in primis.

Ci siamo subito attivati per capire come mai il reddito fosse stato sospeso, ma non abbiamo trovato risposte. Il CAAF ci ha confermato che il trasferimento di residenza non poteva essere considerato un motivo valido per la sospensione del reddito, che può essere sospeso solo per cambio di nucleo familiare o per cambio di reddito. 

Abbiamo provato a quel punto a prendere appuntamento con l’INPS, ma queto si è rivelato impossibile. Per ben 3 mesi abbiamo chiamato ogni giorno il call center, unico punto di accesso per poter richiedere un appuntamento, e per ben tre mesi ci è stato risposto ogni giorno che non c’erano disponibilità per un appuntamento nella sede di C., unica preposta a rispondere sulla questione, e di riprovare il giorno dopo. Dopo 3 mesi siamo riusciti ad ottenere un appuntamento presso un’altra sede, che però ci ha solo rassicurato molto vagamente sul fatto che rifacendo la domanda al CAAF con una nuova dichiarazione ISEE il reddito sarebbe stato nuovamente attivato. Purtroppo abbiamo scoperto con nostra sorpresa che, una volta sospeso, il reddito non può essere riattivato se non sono passati almeno 18 mesi dall’ultima sospensione. Esisteva una possibilità per fare ricorso entro 30 giorni dalla ricezione della lettera di diniego, ma essendo questa arrivata alla residenza fittizia (ovvero presso il municipio di zona), C. è stato avvisato dell’arrivo della lettera quando i termini erano ormai scaduti.

C. si è dunque ritrovato nella peggiore delle condizioni possibili: per strada, con glicemia altissima e rischio vita immediato, senza alcuna tutela da parte dello Stato, senza nessuna possibilità di comunicare con lo Stato e con le istituzioni per far valere la sua condizione di persona estremamente fragile ed a rischio vita, e con una condizione psicofisica che è andata via via a peggiorare sfociando, tra le altre cose, in una totale frustrazione e mancanza di fiducia verso le istituzioni e verso chiunque cercasse di aiutarlo.

Se C. non ha perso la vita in questi mesi non è stato certo per l’INPS, ma per un gruppo di cittadine e cittadini che, anche a costo di importanti sacrifici personali, ha sostenuto C. con pasti ed alloggio in tutti questi mesi, prendendo le veci dell’INPS, che non ha saputo e non sa fare il suo lavoro.

Mi chiedo solo: può essere così complesso, proprio per chi è più fragile ed avrebbe maggiormente bisogno di aiuto, far valere i propri diritti? Le persone più fragili (a maggior ragione se gravemente malate, con reddito nullo e con residenza fittizia) non dovrebbero essere messe nella posizione di perdere il proprio reddito per cavilli burocratici, e di non poterlo più recuperare. Mi rivolgo a lei Presidente Tridico: una persona avrebbe potuto perdere la vita per le mancanze del suo istituto, ed è stata salvata solo grazie alla testardaggine dei cittadini. Chissà quante altre persone nelle stesse condizioni non hanno avuto la stessa fortuna. Ci pensi.

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